La Trasfigurazione è un dipinto a tempera su tavola eseguito da Raffaello tra il 1518 e il 1520, si tratta dell'ultima opera realizzata prima di morire, a soli 37 anni, il 6 aprile del 1520; la tavola venne completata, nella parte inferiore, da Giulio Romano, suo discepolo. Il dipinto fu pensato, inizialmente, come dono da inviare alla cattedrale francese di Narbonne, sede episcopale titolare di un nipote dell’allora pontefice Leone X, il cardinale Giulio de’Medici che sarebbe divenuto, un paio di anni dopo la morte dello zio, nel 1529, lui stesso papa col nome di Clemente VII. Il dipinto si compone di due registri per narrare sia la Trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor, sia la guarigione di un ragazzo epilettico. Con quest’opera Raffaello vuole, con il suo consueto ideale di intendere l’arte come facoltà divina, ricordarci essenzialmente questo: Cristo non è venuto “ad abolire la legge e i profeti, ma a dare pieno compimento alla legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge”; per questo infatti compaiono Mosè ed Elia. Con la Trasfigurazione inoltre Gesù promette la salvezza, ossia la vita eterna, a coloro che lo ascoltano («Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!»), e ci assicura che la croce, le prove, le difficoltà nelle quali ci dibattiamo, hanno la loro soluzione e il loro superamento nella Pasqua, il giorno della Risurrezione. La Trasfigurazione è dunque “un’apparizione pasquale anticipata” che aiuta a comprendere che la passione di Cristo è un mistero di sofferenza, ma è soprattutto un dono di amore infinito da parte di Gesù, il Figlio di Dio.
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