"Umberto Saba e Francisco de Zurbarán per commemorare le vittime dell'Olocausto"
Che la poesia e la pittura provengano dalla stessa matrice, l'anima dell'uomo, è cosa risaputa da tempo. Infatti «La pittura è poesia silenziosa, e la poesia è pittura che parla», scrisse lo storico e filosofo greco Plutarco nella sua opera De gloria Atheniensium (I-II sec d.C.). E, prima ancora di Plutarco, fu il poeta latino Quinto Orazio Flacco (65 - 8 a.C.) a scrivere, nella sua grande epistola in versi dal titolo Ars Poetica (o Epistula ad Pisones, perché dedicata a Lucio Calpurnio Pisone Frugi e ai suoi figli), la celebre locuzione «ut pictura poësis», fino ad arrivare al Novecento, secolo in cui, numerose sono le sperimentazioni tra arte e poesia. Nella poesia La Capra (1921), Umberto Saba (di origine ebraica), adotta l'immagine della capra che egli sente legata a sé in modo fraterno, perché compagna di un dolore eterno. Nell'ebraismo del resto due capre, come scritto nel libro del Levitico (Capitolo 16, Legge relativa alla festa annuale delle espiazioni), vengono offerte in "sacrificio per il peccato"; più precisamente uno verrà offerto in sacrificio («..Poi Aaronne farà avvicinare il capro che è toccato in sorte al Signore, e l'offrirà come sacrificio per il peccato») l'altro, invece, verrà inviato vivo nel deserto («..ma il capro che è toccato in sorte ad Azazel sarà messo vivo davanti al Signore, perché serva a fare l'espiazione per mandarlo poi ad Azazel nel deserto»). Nella cultura ebraica antica, in conclusione, capre e pecore condividevano una comune connotazione positiva, in quanto elementi di una stessa, essenziale, economia pastorale. Ma tornando alla poesia di Saba, quest'ultimo parla di una capra «dal viso semita», «sola», «bagnata», e che «bela». Il belato dell'animale è il grido di dolore che sale, come incenso, verso Dio, ma passando dalle orecchie di Saba. Contestualmente a quanto detto per la poesia ho trovato in pittura un valido equivalente: il dipinto a olio su tela di Francisco de Zurbarán, dal titolo Agnus Dei (1639), conservato a Madrid presso il Museo del Prado. Francisco de Zurbarán, nasce a Fuente de Cantos nel 1598, ed è il più famoso seguace del Caravaggio in Spagna ed uno dei massimi esponenti del Barocco in Spagna. La sua infatti è un'arte totalmente al servizio della Controriforma, motivo per il quale tutte le sue opere si caratterizzano per i fondi scuri, abitati da figure che si rivelano unicamente attraverso lampi di luce violenti e taglienti; il tutto per porre, "nero su bianco", lo sguardo dell'osservatore sul messaggio religioso. Nel dipinto Agnus Dei ritroviamo la figura mite dell'agnello, quell'agnello indicato molto bene dal Battista: «Ecco l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo!» (Vangelo di Giovanni 1:29,34). L'agnello sacrificale da lui dipinto, ovviamente, ha un significato simbolico. Nell'Antico Testamento, questo animale viene bruciato alla gloria di Dio sull'altare sacrificale; nel Nuovo Testamento è Cristo, che ha sacrificato la propria vita per l'espiazione dei peccati umani. Il successo dell'opera in questione, tuttavia, non si spiega con il tema trattato ma, bensi', con il virtuosismo tecnico che comunicano i riccioli del pelo dell'animale, disegnati da un bel gioco di riflessi, il che li rende apparentemente tangibili. L'illusione del tocco è così forte che involontariamente voglio toccarli con la mano! Con quest'opera, Zurbarán, si manifesta come un vero genio dei dettagli. Una tavola, uno sfondo scuro, un candido agnello sacrificale, sono gli elementi che sintetizzano tutta l'atmosfera buia, fredda e cruda dei giorni dell'Olocausto, giorni maledetti, giorni che attendono REDENZIONE!
Prof. Carlo Agen